Autore: Basket IN EVIDENZA Sport

Basket e società: La NBA e la protesta «Black Lives Matter»

Gli Stati Uniti sono scossi, da mesi, dalla protesta anti razzismo denominata «Black Lives Matter» – «Le vite dei neri contano» –  che ha movimentato gran parte dell’opinione pubblica dentro e fuori il nord America. Ben sappiamo che il movimento ha vissuto grande espansione a seguito dell’omicidio di George Floyd, soffocato dal ginocchio di un agente di polizia di Minneapolis, Minnesota. In tutti gli stati dell’Unione si è assistito a marce e manifestazioni di protesta, ma anche razzie, scene di guerra cittadina e violenze tra manifestanti e forze dell’ordine. All’indomani degli eventi, traumatici, appena rievocati non è arrivata nessuna parola di sostegno da parte della Casa Bianca che, specialmente nella persona del Presidente Donald Trump, si è schierata apertamente in favore delle forze di polizia statali, definendo gli agenti dei veri eroi. Le critiche non sono mancate ed il movimento ne ha tratto forza, sospinto in Europa, dalle parole di personaggi famosi e sportivi di ogni disciplina. Lewis Hamilton, sei volte Campione del Mondo di Formula 1 (primo Campione del Mondo di colore della storia del «Circus» fondato da Bernie Ecclestone), ha fatto sentire spesso la propria voce, attraverso i social, ed è stato in prima linea per far arrivare la voce della protesta a quante più persone possibile. Gli hanno fatto eco molti colleghi, come il ferrarista Charles Leclerc, il giovane talento George Russell e gran parte degli sportivi di ogni disciplina.

Lewis Hamilton

La NBA, dalla bolla di Orlando Florida, ha fatto ampio uso dello slogan ed ha permesso ad ogni giocatore di far scrivere al posto del nome sulla maglia,  un messaggio di giustizia sociale. Ovviamente hanno partecipato anche gli italiani: Gallinari ha sostituito il nome con la scritta “giustizia” , mentre Belinelli e Melli hanno indossato la maglia con la scritta “uguaglianza”; altri slogan sono stati: “Peace” pace, “Listen to us” ascoltateci, “How many more” quanti altri ancora. Manca all’appello Lebron James che ha dichiarato di essere molto impegnato sul versante sociale e benefico (ha aperto una scuola gratuita ad Akron Ohio, sua città natale, con la quale dare un futuro ai bambini dei quartieri più degradati.), avendo anche avviato una vera e propria campagna mediatica per portare la gente alle urne delle prossime presidenziali. La NBA ha incontrato le perplessità del presidente Trump che, a margine di altri eventi, ha commentato le iniziative della lega guidata da Adam Silver con un duro ammonimento: «La NBA non si deve occupare di politica, non è compito suo. Si stanno mettendo in grossi guai»; ma i giocatori hanno continuato a far sentire le proprie idee attraverso i profili social.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump

Qualche giorno fa, il caso di Kenosha, Wisconsin ha nuovamente infiammato la protesta; nella cittadina ad una cinquantina di chilometri da Milwaukee, le forze di polizia locali hanno sparato 7 colpi di pistola a bruciapelo alle spalle di Jacob Blake, 29enne afroamericano, davanti agli occhi impauriti dei suoi figli. Il giovane è attualmente in ospedale, paralizzato dalla vita in giù, con ancora le manette ai polsi (è recentemente emersa la protesta dei familiari, che ricordano come Blake sia paralitico ma viene comunque tenuto ammanettato al letto.). Poche ore dopo l’ennesimo atto di violenza contro un afroamericano, la NBA si preparava a scendere in campo con la, presumibile, ultima gara di primo turno tra Milwaukee Bucks e Orlando Magic. I cervi del Wisconsin, guidati dal carismatico George Hill (ex Indiana Pacers, San Antonio Spurs e Cleveland Cavaliers) ritardano l’uscita dagli spogliatoi e, mentre i Magic sono già in campo per il riscaldamento, annunciano di non essere intenzionati a giocare la partita. Sono minuti tesi nella bolla, perché nessuna squadra NBA si è mai rifiutata di scendere in campo, se non per questioni legate al contratto nazionale e agli scioperi indetti dall’Associazione Giocatori; ma poco dopo anche i Magic rientrano negli spogliatoi e qualche minuto dopo, abbandonano il palazzetto per rientrare nei propri alloggi, all’interno del DisneyWorld di Orlando. Nella notte italiana vengono «boicottate» altre due partite: gara 5 tra Houston Rockets e Oklahoma City Thunder ed anche i Lakers, guidati da LBJ, si rifiutano di giocare. La NBA dirama immediatamente un comunicato in cui scrive di aver «rinviato» le gare e che squadre, giocatori e proprietari si riuniranno per decidere il da farsi. Il fronte compatto dei giocatori vorrebbe vedere questa stagione finire qui, senza completare la corsa Playoffs nella bolla dorata di Orlando, alcuni proprietari e franchigie sono d’accordo (Lakers e Clippers, nonostante la più alta probabilità di vittoria finale, sarebbero per la chiusura), mentre altri sembrano più orientati a terminare i playoffs.

George Hill

C’è tantissimo di cui discutere: non è mai successo prima che una squadra NBA si rifiutasse di portare a termine la stagione, men che meno tutte quelle impegnate nei Playoffs. Il commisioner Adam Silver ha indetto una riunione tra giocatori e proprietari per decidere una linea comune, considerando il clamore mediatico che si è sviluppato intorno alla faccenda, non può esimersi dal prendere le parti della più consistente forza lavoro della sua lega. La presenza di afroamericani in NBA è superiore all’ottanta percento del totale dei giocatori, ed è giusto che loro in primis facciano sentire la propria voce e facciano trapelare le proprie emozioni. «Abbiamo il dovere di mandare messaggi positivi, ma qui non cambia mai nulla. Che giochiamo a fare mentre succedono ancora queste cose?» ha detto Hill pochi minuti dopo aver boicottato la partita contro i Magic. «Ci sono cose più importanti del basket; appoggiamo i nostri giocatori in tutti i sensi! Sono fiero dei miei ragazzi!» il tweet di Alex Lasry proprietario della franchigia del Wisconsin.

André Iguodala

Nelle ultime ore si sono tenute diverse riunioni tra il sindacato dei giocatori rappresentato dal presidente Chris Paul, proprietari delle franchigie ed esponenti della lega. I giocatori hanno presentato l’ipotesi a loro più congeniale chiedendo la cancellazione della stagione – o quel che ne rimane -; fanno i conti, invece, sia i proprietari che la stessa NBA. Gli introiti non mancano alla lega e neanche ai proprietari delle squadre, ma se si dovesse cancellare la stagione, migliaia di addetti ai lavori (spesso titolari di contratti temporanei con la lega o le franchigie) si ritroverebbero senza occupazione e senza garanzie economiche in un periodo già difficilissimo. Secondo i dati finanziari della NBPA, la chiusura anticipata di questa stagione, avrebbe comportato una riduzione del monte ingaggi intorno al 25% per la stagione 2020/21. Inoltre la bolla di Orlando sarebbe una perfetta cassa di risonanza per le parole dei giocatori, che grande ascendente hanno sulle giovani generazioni. Così Lebron James ha anticipato tutti con il suo Tweet: riservando qualche parola forte nei confronti del presidente Trump, the «Chosen One» ha detto: «Non è più tempo di parole. Bisogna agire e farlo subito!» riferendosi alla possibilità di continuare a giocare senza distogliere l’attenzione del pubblico dalla protesta e dai motivi che l’hanno scatenata.

Durante le riunioni sono emerse diverse incomprensioni tra i giocatori; Lebron James ha criticato i Milwaukee Bucks in quanto responsabili di un’azione non condivisa con il resto dell’associazione giocatori, mettendo di fatto le altre squadre nella posizione di non potersi tirare indietro dalla serrata. James avrebbe quindi lasciato decidere alla maggioranza, ritenendo importante non solo il gesto ma, soprattutto, la coesione delle posizioni dei vari giocatori. La ricostruzione di Chris Haynes, informatissima penna di Yahoo Sports, ci da il quadro «politico» di questo momento della storia NBA. Lebron e Udonis Haslem, veterano NBA molto ascoltato su tematiche sindacali, hanno accusato i Bucks di aver messo tutti in una via senza successo, costringendo i giocatori di altre squadre a rifiutarsi di scendere in campo. In particolare il numero 23 dei Lakers ha criticato la mancanza di un piano condiviso che desse maggiore risonanza e coesione ad una protesta così importante. Alla fine, interpellato direttamente sulla questione, Lebron ed i Lakers hanno lasciato la sala della riunione, rimettendosi alla volontà popolare, mentre Haslem chiedeva che prendesse posizione in quanto «volto della Lega». Haslem ha in un colpo chiarito che James non è solo il giocatore più forte al momento, ma anche quello che ha più ascendente sul resto dell’associazione giocatori; appunto, il volto della Lega.

LeBron James

Ma qual è il piano dell’associazione giocatori? Quale è stato l’oggetto delle tante riunioni svoltesi in meno di 48 ore? In breve James ha voluto mettere in chiaro la propria supremazia raccogliendo quanti non fossero contenti del guizzo di autonomia dei Bucks, la NBA voleva ripartire il più velocemente possibile, mentre i proprietari, su consiglio dell’unico proprietario di colore Michael Jordan, hanno lasciato agli atleti la contrattazione. Per l’ultima riunione Lakers e Clippers si sono presentati come pronti a ripartire, ma con qualche condizione. Cosi la NBA ha informato le altre squadre e iniziato a lavorare sul calendario delle sfide rimanenti. Altri giocatori hanno criticato LBJ ed il suo accordo con i Clippers non sentendosi rappresentati nel modo giusto; qui è entrata in campo la mediazione di Chris Paul e André Iguodala che hanno promesso di tenere conto del volere di tutti i giocatori durante la contrattazione con la Lega. L’associazione NBPA ha richiesto diverse condizioni per la ripartenza, ottenendo risposte positive sia dalla NBA che dai proprietari: la prima richiesta è quella di spot promozionali atti a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione razziale, ai proprietari è stato richiesto di trasformare le training facilities ed i palazzetti in seggi elettorali e spingere la popolazione alla maggiore affluenza possibile in occasione delle presidenziali. Ogni dettaglio che non riguarderà strettamente il basket giocato, lascerà il posto ai messaggi di giustizia sociale che la NBPA vorrà lanciare. In questo senso sono già in produzione diversi spot pubblicitari da mandare in diretta durante i timeout.

Adam Silver, Commissioner NBA

Le richieste fatte dai giocatori sono state prese in carico da NBA e proprietari, che hanno dato garanzie in questo senso sia durante le riunioni private che pubblicamente. Lebron, molto più tranquillo dopo le riunioni, ha sostanzialmente fatto rientrare il clima di tensione nella norma che la bolla concede, calmato gli animi e convinto i giocatori a continuare la corsa Playoffs, CP3 ed Iggy hanno ottenuto di poter continuare la battaglia contro il razzismo con estrema libertà di espressione attraverso la grande cassa della NBA, solo questo ha permesso alla situazione di sbloccarsi definitivamente. Negli Stati Uniti esiste eccome un problema razziale, la NBA, che lo voglia o meno, sarà un’entità centrale nella lotta al razzismo; proprio per il suo ruolo di modello di comportamento nei confronti delle nuove generazioni, quegli stessi giovani che Lebron vorrebbe vedere in massiccia presenza al voto per le prossime presidenziali, che vorrebbe sempre più al centro della discussione sociale e politica del Paese. Una discussione che tocca anche l’Europa, intrecciata su se stessa sul tema dell’accoglienza e dell’immigrazione, e che dovrebbe consentirci di riflettere mettendoci facilmente nei panni di coloro che soffrono ingiustizie per via del colore della pelle, della fede religiosa o per l’orientamento sessuale.

Servizio a cura di Paolo Mucedero

(Visited 2.101 times, 1 visits today)
WP Twitter Auto Publish Powered By : XYZScripts.com