Nel panorama televisivo italiano, affollato di figure che si affannano a diventare personaggi prima ancora di essere interpreti, Giulia Vecchio ha compiuto il percorso opposto. Il palcoscenico lo ha conquistato. Non si è imposta come rivelazione: lo è diventata per forza intrinseca, come certi fenomeni atmosferici che appaiono all’improvviso ma in realtà sono il frutto di una lenta sedimentazione sotterranea. Il riconoscimento arrivato con i Tv Talk Awards 2025 – premiata dalla stampa come “Personaggio rivelazione” – è un sigillo apposto sul tempo: quello impiegato a prendere confidenza con una vocazione, ad abbandonare le maschere della sicurezza per indossare quelle più pericolose e sincere della comicità.
La comicità, infatti, non è mai un rifugio. Al contrario, è un rischio, un cortocircuito, una destabilizzazione volontaria. Far ridere, se lo si fa sul serio, significa danzare sull’orlo dell’imbarazzo, scoprire gli altri ridendo di sé, rovesciare l’ordine delle cose per mostrarne le crepe. Giulia Vecchio lo ha capito a partire da un paradosso biografico: essere riconosciuta per la bellezza quando avrebbe voluto affermarsi per la profondità. Una ragazza di Brindisi, figlia di una terra dove il talento artistico raramente trova canali di emersione diretti, che sceglie prima il teatro e poi la televisione, senza mai abbandonare quella vena di dissacrazione gentile che l’ha portata, oggi, a vestire i panni delle sue parodie con precisione chirurgica e grazia guascona.
Nel suo percorso non c’è nulla di patinato. Miss Italia arriva per una strana forma di affetto paterno, silenzioso e sghembo. La scuola è un campo di battaglia tra debiti in latino e sveglie sul water, più che un curriculum accademico da esibire. E il teatro nasce da una vertigine vera, da una sindrome di Stendhal tutta pugliese davanti alle pietre antiche di un anfiteatro greco. Non ci sono scorciatoie né costruzioni preconfezionate. Giulia il suo ruolo se l’è costruito a colpi di resistenza e intuizioni. I “no” ricevuti dopo “Il Paradiso delle signore” non le hanno sfilato la scena: le hanno dato una grammatica diversa per rientrare da un’altra porta, più piccola ma più sua, che l’ha condotta prima a “Bar Stella” e poi al “GialappaShow”. Nell’audizione di Brindisi candidata a Capitale italiana della Cultura 2027, Giulia Vecchio lo aveva detto citando don Tonino Bello: abbiamo creduto che per fare un tavolo ci voglia il legno ma per fare un tavolo ci vuole un fiore. E Giulia c’ha messo cura perché quel fiore sbocciasse in un percorso costellato di ostacoli, di piccoli gesti, di fioriture inattese.
È qui che avviene la mutazione. Non solo quella comica – che c’era già – ma quella pubblica. Giulia Vecchio diventa uno specchio deformante che sa restituire il riflesso dell’attualità televisiva con feroce tenerezza. Monica Setta e Milly Carlucci non sono solo caricature ma miniature critiche in forma di sketch. Sfondano la barriera dell’imitazione per diventare “personaggi altri” costruiti con cura drammaturgica, corporeità, tempo e controllo. Non basta avere una buona idea: serve un pensiero comico, una regia interna, un’alleanza con autori che scrivano figure più che battute.
Il successo di Giulia Vecchio, dunque, è la vittoria di una comicità che non grida ma suggerisce, che non urla ma stratifica. Una comicità che si nutre del vissuto e si affina nel lavoro e che trova nell’improvvisazione una tecnica. È una rivincita contro quel pregiudizio antichissimo che relega il comico alla serie B dell’espressione artistica. E se c’è un merito che le va riconosciuto – al di là dell’applauso – è proprio quello di aver riabilitato la complessità del riso. Come Paola Cortellesi, da lei più volte citata come faro e orizzonte, Giulia Vecchio intende dimostrare che si può essere attrici e comiche senza dissociazione, senza dover scegliere tra il rispetto e il divertimento.

Il fatto che sia premiata con un riconoscimento dedicato alla rivelazione non è un punto d’arrivo ma un punto di partenza. La Vecchio attrice, la Vecchio comica, la Vecchio che faceva i mash-up di “Figli delle stelle” con “Ciuri ciuri” per campare durante la pandemia, sono tutte la stessa persona: una che ha imparato a rendere le sue contraddizioni un’identità e la propria inquietudine un carburante creativo. Attraverso la comicità ha trovato un linguaggio che le si attaglia a meraviglia, che non le chiede di essere altro da sé. In ogni parodia, per quanto deformata, c’è un frammento di sincerità, una verità smussata, un pezzo di vita rielaborato in chiave obliqua. È così che si diventa riconoscibili.
Oggi Giulia Vecchio può permettersi di scherzare sulla sedia vacante tra i Gialappi – e forse non sta neanche scherzando. Perché ha già dimostrato di saperla occupare con la stessa autorevolezza di chi quella comicità l’ha inventata trent’anni fa. La sua è una comicità che non pretende di piacere a tutti ma che conosce il mestiere e lo rispetta. Ed è forse per questo che piace. Non per l’effetto ma per la sostanza. Per quella capacità di costruire il riso come si costruisce un personaggio tragico: a partire dalla fragilità, dal dubbio, dall’inadeguatezza. Il suo premio ai Tv Talk Awards è la certificazione – rara – di un talento emerso grazie alla qualità. Non per chi la conosceva già ma per chi non la aspettava. E adesso non vuole più perderla di vista.
Roberto Romeo (dal settimanale Agenda Brindisi – 6 giugno 2025)