Autore: L'angolo della cultura Rubriche

Leonardo, genio goloso e chef

Del genio di Vinci, figlio di ser Piero, notaio, e di Caterina, prosperosa contadinella, sappiamo ormai tutto, o quasi. Biografie, monografie, film, sceneggiati e servizi televisivi ce lo hanno raccontato come artista a tutto tondo, scienziato, inventore, progettista, ingegnere civile e militare, e come uomo di vivacissima intelligenza ed inesauribile curiosità. Sigmund Freud, nel saggio «Un ricordo di infanzia» (1910), ne evidenzia la «brama di sapere», a suo dire una chiara sublimazione dell’impulso sessuale infantile, la peculiare delicatezza femminea con cui amava i fiori e gli animali, ed anche i relativi presupposti teorici di tipo psicologico, illuminanti indicatori di una netta predisposizione all’omosessualità, fatto quasi certo ma non acclarato da documenti inoppugnabili. Il dottor Freud ci dice inoltre che non risulta abbia mai avuto un legame o un incontro intimo con una donna, aggiunge poi che era vegetariano, naturalista, elegante e spendaccione, e che era molto lento nel lavoro. Per terminare il «Cenacolo» milanese impiegò tre anni, mentre, come già riportato da Giorgio Vasari, il ritratto di «Monna Lisa» dopo quattro anni non era ancora ultimato, non fu mai consegnato al committente (Francesco I) e quando nel 1482 Leonardo lo portò con sé in Francia, ancora abbisognava di qualche ritocchino.
Però il grande psicanalista viennese, nelle settanta pagine che dedica a Leonardo, non scrive una sola parola sulla sua ossessione per il cibo e per «l’arte coquinaria», come allora veniva definita la gastronomia. In effetti il nostro genio toscano, se fosse vissuto appena centocinquanta anni prima, sarebbe finito dritto nel canto VI dell’inferno dantesco, quello dove sono puniti i golosi. Il nostro, infatti, sin dalla tenera età fu educato alla «dannosa colpa della gola» dai dolcetti di marzapane e dai tortini glassati preparati in abbondanza dal patrigno, un pasticcere di Vinci che aveva sposato mamma Caterina. Quando andò a bottega dal Verrocchio, a Firenze, era un bambinone grassottello che sporcava il posto di lavoro con briciole di pane e di biscotti, facendo così arrabbiare il Maestro. Ma con la passione dei gourmet non si scherza.
Durante l’apprendistato pittorico fece, di sera, anche il garzone e l’aiuto cuoco presso la «Taverna delle tre lumache». Dopo qualche anno lasciò la bottega d’arte rilevando un’altra bettola, «La taverna delle tre rane», sempre a Firenze. In quell’azzardata avventura si trascinò dietro l’amico Sandro Botticelli, anch’egli aspirante chef. Il tentativo andò malissimo, i rozzi fiorentini non apprezzarono quella «novella cucina» e la strana coppia dei fornelli fallì. Il geniale Leo inventò persino una bibita analcolico-afrodisiaca a cui dette il none di «Acquarosa». Appena riprenderà il rito dell’aperitivo, non dimenticate di ordinarla al barman …
Gabriele D’Amelj Melodia (Rubrica CULTURA – Agenda Brindisi 30 ottobre 2020)

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