E’ il giorno dei soleni funerali di Papa Francesco, con la partecipazione dei potenti del mondo. E mentre tutte le televisioni diffondono le immagini live di un evento planetario, Agenda propone anche nel sito il servizio che il nostro Roberto Romeo ha dedicato alla scomparsa del Pontefice, al suo percorso di Papa e uomo.

C’è un silenzio che oggi pesa più di altri. Non è il silenzio ovattato delle basiliche vuote né quello devoto delle processioni d’altri tempi. È un silenzio globale, assordante, che attraversa piazze, parrocchie, redazioni, confessionali e agorà digitali. È il silenzio che segue l’annuncio della morte di papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, primo pontefice latinoamericano, primo gesuita sul soglio di Pietro, primo a portare il nome del Santo di Assisi. Il primo, in fondo, che non sembrava arrivato da un altro mondo, ma da un cortile, da una panchina di periferia, da una cucina fumosa dove si parla sottovoce e si mangia col cuore.
Francesco è stato un Papa che ha rotto lo stampo, senza infrangere la forma. Non ha mai abdicato al peso del ministero petrino ma ha piegato quel peso per renderlo umano, prossimo, camminante. Il suo pontificato è stato un atto di discesa: dalle stanze alte dell’Appartamento vaticano alle camere di Santa Marta, dai troni intagliati ai sedili pericolanti del mondo reale, dalle scritture liturgiche alle parole che tutti capiscono. Quando, quella sera del 13 marzo 2013, affacciandosi alla loggia di San Pietro, disse semplicemente “buonasera”, molti credettero di assistere a un inciampo di protocollo. Era invece un taglio netto, il preludio a un papato di terra, non di marmo.
Ha parlato al mondo come si parla in famiglia, non da pulpito ma da uomo tra gli uomini. Ha denunciato senza aggredire, ha esortato senza giudicare, ha accompagnato senza comandare. Ha camminato con i migranti, si è seduto con i poveri, ha messo i piedi – letteralmente – nel fango di Lampedusa e nei sobborghi delle metropoli globali. In un tempo che cercava autorità come consolazione e rigidità come rifugio, Francesco ha offerto prossimità, ascolto, compassione. Qualcuno lo ha accusato di indebolire la dottrina; eppure ha rafforzato la fede di chi da tempo si era sentito escluso, dimenticato, disprezzato dalle gerarchie. La sua rivoluzione è stata, come tutte le rivoluzioni vere, una questione di sguardi.

Nato a Buenos Aires da una famiglia di migranti piemontesi, ha sempre portato nel sangue un’idea semplice e radicale di Chiesa: quella del campo, non della rocca. Una Chiesa “ospedale da campo”, come amava dire, che non ha paura di sporcarsi le mani, che preferisce l’errore all’immobilismo, la tenerezza al rigore. La sua grammatica spirituale è stata quella di Francesco d’Assisi, ma anche di don Milani, di don Tonino Bello, di tutti quei pastori che hanno anteposto l’incontro alla dottrina, la persona al precetto, il Vangelo al codice.
Ha scardinato le liturgie della Curia senza distruggerle, ha riaperto questioni che si voleva chiuse, ha indicato percorsi là dove altri vedevano muri. Ha parlato della guerra con parole che bruciavano: “pezzi di terza guerra mondiale”. Ha chiamato l’ipocrisia religiosa col suo nome. Ha denunciato il cinismo economico, la crudeltà del traffico d’armi, la follia del culto del profitto. Ha taciuto, quando ha ritenuto che il silenzio fosse più sovvertitore della parola. Ha pagato quel silenzio. È stato criticato, strumentalizzato, frainteso. Ma non ha mai risposto con livore. Solo con insistenza, quella che viene non dalla strategia ma dalla convinzione.
Era un teologo del gesto, della visita a sorpresa, della telefonata privata, del pranzo coi senzatetto. E non era populismo: era fedeltà alla radicalità evangelica. Sapeva che la Chiesa ha bisogno di una riforma non per stare al passo coi tempi ma per stare accanto agli uomini del suo tempo. Francesco non è stato un Papa facile. Né per la Curia né per i tradizionalisti, né per i laici in cerca di modernizzazione, né per gli ecclesiastici timorosi di perdere potere. È stato un Papa scomodo che ha scelto la debolezza invece del prestigio, la periferia invece del centro. Eppure in questa scomodità molti hanno ritrovato un senso di appartenenza, una possibilità di fede, un motivo per restare.
Ora che la sua voce si è spenta, resta la sua eco. Ed è un’eco che non suona come una nostalgia ma come una responsabilità. La sua eredità non sta tanto nei documenti magisteriali – pur significativi – quanto in una postura, in un respiro, in una presenza viva. Ci ha lasciato un’idea di Chiesa che può ancora scegliere: tocca a noi decidere se raccoglierla o lasciarla appassire nei corridoi vaticani.
Si dice che alcuni papi siano concessi, altri tollerati, altri ancora inflitti. Francesco, con tutta la sua fragilità e la sua fermezza, con tutta la sua umanità e le sue omissioni, sembra appartenere a quella prima categoria: i papi donati. A chi? A tutti. Non solo ai cattolici ma a chiunque creda che la voce più potente sia quella che si abbassa per farsi ascoltare. Adesso il suo nome è storia. E la storia, lo sappiamo, è lenta a dare verdetti. Nel frattempo, noi che ci siamo trovati spiazzati da un Papa che diceva “buonasera” o che sorrideva al posto di pontificare, possiamo dire di aver vissuto una stagione irripetibile. Una stagione in cui il trono più antico del mondo è diventato, per un momento, una sedia qualunque. E quel gesto – che può sembrare poco – è stato in realtà il più rivoluzionario di tutti.
Roberto Romeo (dal settimanale Agenda Brindisi – 25 aprile 2025)